Con la recentissima sentenza n. 342 del 3 marzo 2025, la Corte di Appello di Napoli ha affermato che, nel calcolo della retribuzione spettante al dipendente durante le ferie, non devono essere inseriti i buoni pasto, avendo gli stessi natura non retributiva.

Il fatto affrontato

Alcuni dipendenti promuovevano un giudizio avanti il Tribunale di Napoli, chiedendo al Giudice di condannare il datore di lavoro al pagamento in loro favore degli importi spettanti a titolo di ricalcolo della retribuzione feriale con l’incidenza dell’indennità perequativa/compensativa, indennità di turno, premio di risultato e buoni pasto.

Il Tribunale accoglieva la domanda dei lavoratori. La società impugnava la sentenza, censurando la decisione del giudice di primo grado per avere ritenuto che anche i ticket restaurant dovessero essere inclusi nella retribuzione feriale.

La sentenza

La Corte di Appello di Napoli ha preliminarmente rammentato che, secondo la giurisprudenza comunitaria, la retribuzione delle ferie annuali deve essere calcolata in modo da coincidere con la retribuzione ordinaria del lavoratore, posto che una diminuzione della stessa sarebbe idonea a dissuadere il dipendente dall’esercitare il diritto alle ferie.

Tuttavia, secondo la Corte territoriale, detto concetto deve estendersi solo alle voci retributive che si pongano in rapporto di collegamento all’esecuzione delle mansioni e che siano correlate allo status personale e professionale del lavoratore.

Condividendo l’orientamento della Suprema Corte che definisce i buoni pasto non come elemento della retribuzione “normale”, ma come agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale (Cass. n. 16135/2020; Cass. n. 23303/19; Cass. n. 5547/2021, Cass. n. 15629/2021), la Corte d’Appello ha, quindi, statuito che i buoni pasto non rientrano nella retribuzione feriale, trattandosi di un mero rimborso forfettario di una spesa del lavoratore e che un eventuale loro computo potrebbe ravvisarvi nell’ipotesi in cui eventuali accordi sindacali li qualifichino come elementi di natura retributiva collegati sinallagmaticamente alla prestazione lavorativa.

Su tali presupposti, la Corte di Appello di Napoli ha accolto, sul punto, il ricorso promosso dalla società.

Occorre rilevare che tale pronuncia si pone in contrasto con l’ordinanza n. 25840 del 27 settembre 2024, con la quale la Suprema Corte ha invece ritenuto che i buoni pasto debbano essere annoverati tra le voci economiche da assicurare ai lavoratori durante il periodo di ferie.  

I Giudici di legittimità, pure prendendo le mosse dalla nozione di retribuzione data dalla Corte di Giustizia Europea, hanno statuito che il lavoratore deve percepire durante le ferie la retribuzione ordinaria, ossia quella che il lavoratore percepisce quando presta la sua attività lavorativa, ivi inclusi, dunque, secondo la Corte di Cassazione, i buoni pasto.  

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Il 5 dicembre 2023 è stato pubblicato l’accordo di rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per i Dirigenti delle Banche di Credito Cooperativo sottoscritto da Federcasse ed i sindacati FABI, First/CISL, Fisac/CIGL, UGL Credito e UilCa/UIL.

Le novità introdotte riguardano in primo luogo la parte economica con adeguamenti retributivi differenziati (c.d. “doppio binario”). Nello specifico, a decorrere dal 1° gennaio 2024 la retribuzione annua minima spettante ai dirigenti sarà pari ad euro 73.000. In aggiunta, ai dirigenti che non percepiscono una retribuzione fissa complessiva annua lorda pari almeno ad euro 80.000 è riconosciuto un emolumento economico aggiuntivo denominato “Elemento distinto della retribuzione” di importo pari alla differenza sussistente di volta in volta tra la predetta retribuzione e sino a concorrenza della somma di euro 80.000, suddiviso per 13 mensilità.

Infine, sempre a decorrere dal 1° gennaio 2024 cesseranno di essere corrisposti: (a) il trattamento di reperibilità (art. 21); (b) l’emolumento per la partecipazione normale a riunioni fuori dell’orario di lavoro (art. 24) nonché la diaria di missione (art. 40).

Con riferimento poi, alla parte normativa, di seguito si riportano le modifiche degli istituti di particolare interesse:

  • Formazione (art. 12): a decorrere dal 1° gennaio 2024 con cadenza biennale, il dirigente sarà destinatario di un pacchetto formativo tecnico-identitario pari a 20 ore (nel biennio) per determinate materie. Per i dirigenti assunti dall’esterno della Categoria, il pacchetto formativo tecnico identitario per il primo anno dall’assunzione sarà pari a 20 ore da svolgersi interamente entro detto primo anno. Inoltre, per l’accesso alla carriera dirigenziale ed al ruolo di direttore, le aziende, compatibilmente con le esigenze produttive ed organizzative, dovranno avere cura di valorizzare le risorse interne, anche attraverso appositi percorsi formativi e di carriera.
  • Mansioni superiori (art. 13): viene aumentato da 4 mei a 5 mesi il periodo di adibizione a mansioni superiori che comporta l’attribuzione definitiva dell’inquadramento dirigenziale o di direttrice/direttore.
  • Permessi (art. 29): vengono riconosciuti 3 giorni di permesso anche in caso di ricovero del figlio o del coniuge o del convivente more uxorio o del genitore, limitatamente ai giorni di effettivo ricovero. Inoltre, le aziende, ai fini della concessione di permessi, periodi di congedo e aspettativa non retribuita, dovranno considerare le particolari situazioni familiari che comportino la necessità di assistenza di figli in condizioni di disagio (es.: bullismo, tossicodipendenza, anoressia/bulimia).
  • Altri istituti: vengono parificati alle disposizioni del CCNL per i Quadri Direttivi ed il personale delle Aree Professionali i trattamenti di malattia ed infortunio (artt. 34,35), nonché le disposizioni che riguardano la tutela della maternità e della paternità.
  • Contribuzione (artt.47 e 47 bis): a decorrere dal 1° gennaio 2024 la contribuzione alla Cassa Mutua Nazionale per il personale delle Banche di Credito Cooperativo e quella per la Long Term Care viene parificata a quella di tempo in tempo in vigore per il personale inquadrato nei Quadri Direttivi e nelle Aree professionali.
  • Festività soppresse (art. 26): per l’anno 2024 una giornata di permesso ex festività sarà donata alla “Banca del tempo solidale”.
  • Preavviso (art. 62): viene elevato da 3 a 4 mesi il preavviso in caso di dimissioni volontarie da parte del dirigente.

Lo scorso maggio è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea la Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 2023/970.

Quest’ultima è entrata in vigore lo scorso 6 giugno 2023 e gli Stati Membri dovranno adeguarsi alle previsioni in essa contenute entro il 7 giugno 2026, pena l’avvio della procedura di infrazione a loro carico.

A ciascuno Stato Membro (inclusa l’Italia) è richiesto di adottare tutte le misure legislative necessarie a garantire la trasparenza retributiva anche nel settore privato.

In particolare, dovranno essere introdotti – nella legislazione nazionale – obblighi normativi che impongano ai datori di lavoro di fornire informazioni adeguate sul salario e sui livelli retributivi sia ai candidati ad una posizione lavorativa che ai lavoratori ed alle lavoratrici già in forza.

In questo senso, dispone la Direttiva, dovrà essere garantito ai candidati ad una posizione lavorativa il diritto di ricevere tutte le informazioni sui livelli salariali relativi ad una specifica mansione, mentre tutti i lavoratori e le lavoratrici dovranno poter accedere alle informazioni sui livelli salariali individuali e quelli medi ripartiti per genere, per categorie di personale o per mansioni analoghe. Dovrà essere poi impedito al datore di lavoro di chiedere ai candidati informazioni sulle retribuzioni percepite negli attuali o nei precedenti rapporti di lavoro.

Per garantire il funzionamento dei meccanismi di trasparenza introdotti, dovrà inoltre essere previsto un obbligo per i datori di lavoro di informare annualmente tutti i lavoratori e le lavoratrici del diritto di ricevere le informazioni in questione, le quali – in ogni caso – dovranno essere obbligatoriamente comunicate anche all’autorità designata, da quei datori di lavoro che occupino più di 100 dipendenti.

Le ultime citate informazioni dovranno essere anche fornite ai rappresentanti dei lavoratori e delle lavoratrici, agli ispettorati del lavoro e agli organismi per la parità, i quali avranno anche diritto di chiedere dettagli ulteriori in merito a qualsiasi dato fornito, comprese spiegazioni su eventuali differenze retributive di genere.

Gli strumenti legislativi nazionali – da adottarsi in conformità con la Direttiva – dovranno garantire a tutti i lavoratori e a tutte le lavoratrici l’accesso alle informazioni sui livelli salariali individuali e quelli medi ripartiti per genere, ponendo un onere in capo al datore di lavoro di adottare meccanismi appropriati e funzionali allo scopo.

I datori di lavoro dovranno anche predisporre una descrizione dei criteri (neutrali) alla base della determinazione della retribuzione e dell’avanzamento di carriera e dovranno fornire ai lavoratori che lo richiederanno tutte le informazioni sul livello retributivo.

Gli Stati membri dovranno provvedere affinché i datori di lavoro forniscano le informazioni relative alla loro organizzazione, in particolare sul divario retributivo di genere (nelle componenti complementari o variabili) sia nella assegnazione che nella quantificazione, descrivendo il numero di lavoratori di sesso femminile e di sesso maschile in ogni quartile retributivo.

È inoltre previsto che i datori di lavoro con almeno 250 lavoratori e lavoratrici in forza forniscano, entro il 7 giugno 2027 e successivamente ogni anno, i sopra citati dati con riferimento all’anno civile precedente. Medesimi obblighi sono previsti per i datori di lavoro che hanno tra le 150 e le 249 risorse umane, che dovranno fornire le informazioni entro il 7 giugno 2027 e successivamente ogni tre anni, mentre i datori di lavoro che hanno tra i 100 e i 149 lavoratori e lavoratrici in forza avranno tempo fino al 7 giugno 2031 e successivamente ogni tre anni.

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La massima

Salute e sicurezza sul luogo di lavoro – obblighi del lavoratore – rifiuto di indossare la mascherina – rilevanza disciplinare – legittimità della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione

Nella situazione tragica in cui il Paese e il mondo intero si sono trovati a causa dell’epidemia da Covid-19, l’imposizione ai lavoratori dell’utilizzo della mascherina da parte [del datore di lavoro], affermata nel Protocollo condiviso con le OOSS, non è certo misura irrazionale o eccessivamente gravosa, ma risponde pienamente al dovere datoriale di tutelare al meglio i propri dipendenti”. Il comportamento del lavoratore che rifiuti di indossare la mascherina in occasione di una riunione aziendale appare quindi del tutto ingiustificato ed è legittima la conseguente sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione irrogata dal datore di lavoro.

Premessa

Come è noto, l’art 2087 del Codice Civile, impone in capo al datore di lavoro l’obbligo di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Nel contesto emergenziale, dovuto alla diffusione del virus Covid-19, come noto, il Decreto Legge Cura Italia, ha equiparato l’infezione da Covid-19 contratta in occasione di lavoro ad infortunio, rendendo ancor più gravoso l’onere del datore di lavoro di garantire l’osservanza da parte dei lavoratori delle misure introdotte in azienda a tutela della salute e sicurezza degli stessi.

Come noto, nel contesto emergenziale, Governo e Parti Sociali hanno sottoscritto, dapprima in data 14 marzo 2020 il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, successivamente aggiornato dal Protocollo del 24 aprile 2020 e, da ultimo, in data 6 aprile 2021 mediante la sottoscrizione del “Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contenimento della diffusione del virus SARS-Co V-2/COVID-19 negli ambienti di lavoro”.

Tra le misure di sicurezza previste dalla normativa emergenziale, rientra a pieno titolo, l’obbligo del datore di lavoro di fornire ai lavoratori mascherine chirurgiche, il cui utilizzo, in tutti i casi di condivisione degli ambienti di lavoro, al chiuso o all’aperto, risulta obbligatorio.

Accanto ai doveri imposti in capo al datore di lavoro dalla normativa vigente in materia di salute e sicurezza, si affianca tuttavia un vero e proprio obbligo di cooperazione da parte del lavoratore nell’adempimento delle misure predisposte dal datore di lavoro a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, così come previsto dall’Art. 20 del T.U. in materia di salute e sicurezza.

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Con ordinanza del 19 maggio 2021, resa all’esito di un giudizio cautelare, il Tribunale di Modena ha ritenuto legittima la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione di due operatori sanitari non vaccinati.
La vicenda trae origine dal rifiuto di due fisioterapisti che prestavano la propria attività lavorativa presso una residenza per anziani di effettuare la vaccinazione anti Covid-19, con la conseguente decisione datoriale di sospendere il rapporto lavorativo e il relativo onere retributivo sino all’avvenuta inoculazione del vaccino.
Il Giudice, adito dai dipendenti con ricorso cautelare ai sensi dell’art. 700 c.p.c., ha confermato la piena legittimità del provvedimento datoriale, motivando il proprio convincimento sulla base della normativa in tema di salute e sicurezza sul luogo di lavoro, nonché – sebbene norma sopravvenuta rispetto ai fatti di causa – con riferimento alle disposizioni di cui al recente decreto-legge n. 44/2021.
L’excursus logico-giuridico del Giudice prende le mosse dall’art. 20 del D.Lgs. 81/2008 (c.d. Testo Unico sulla Sicurezza) che, secondo l’interpretazione dallo stesso fornita, impone al prestatore di lavoro un obbligo giuridicamente rilevante di cura e sicurezza per la tutela dell’integrità psico-fisica propria e di tutti i soggetti terzi con cui entra in contatto nel luogo di lavoro, con la conseguente sanzionabilità giuridica di comportamenti difformi.
Opinare diversamente, escludendo dunque tale onere di collaborazione in capo al dipendente, depotenzierebbe – come precisato dal Giudice – l’obbligo di sicurezza che, ai sensi dell’art. 2087 c.c., incombe sul datore di lavoro. Ne consegue che, dall’analisi delle norme citate, il Legislatore abbia inteso concepire un sistema in cui il datore di lavoro e il prestatore siano
soggetti attivi, tenuti a collaborare fattivamente alla realizzazione di un ambiente di lavoro salubre e sicuro.

Data tale premessa, si è poi reso necessario procedere nell’ambito del giudizio all’analisi dell’esigibilità o meno di un dovere di collaborazione in tema di sicurezza in capo al dipendente anche nell’ipotesi in cui la misura precauzionale da adottare sia costituita dalla sottoposizione al vaccino.

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Il Tribunale di Trento, con la sentenza n. 86 del 2020, ha riaperto la questione della c.d. “doppia retribuzione” dei lavoratori il cui rapporto di lavoro cambia titolarità come effetto di un atto di cessione di azienda, qualora il trasferimento sia dichiarato illegittimo. Sul punto si sono susseguiti nel tempo orientamenti giurisprudenziali contrastanti.

Secondo una recente pronuncia della Corte di Cassazione (sentenza n. 9093/2020) nel caso sopra rappresentato deve essere riconosciuta al lavoratore una doppia retribuzione; pertanto, il datore di lavoro cedente non potrebbe detrarre dagli emolumenti dovuti per il passato quanto lo stesso lavoratore abbia percepito, a titolo di retribuzione, per l’attività prestata in favore dell’”ex cessionario”.

Il Tribunale di Trento, discostandosi da tale orientamento, esclude che il lavoratore, a seguito dell’annullamento del trasferimento di azienda, possa essere parte di due prestazioni (una «prestazione materiale» nei confronti del già cessionario, e una «prestazione giuridica» nei confronti del già cedente che nasce come effetto della sentenza). In tal caso, infatti, i due rapporti di lavoro hanno per oggetto la medesima prestazione lavorativa e, conseguentemente, la medesima controprestazione retributiva, sebbene diversa sia la fonte giuridica dell’obbligazione di cui costituisce oggetto.

A fronte di tali premesse, il giudice di merito ha stabilito che se un trasferimento di azienda viene dichiarato illegittimo, il lavoratore che torna alle dipendenze del cedente non può chiedere il pagamento delle retribuzioni che avrebbe percepito nel lasso di tempo intercorrente dalla cessione alla sentenza se durante tale periodo ha comunque percepito la retribuzione dal cessionario.

Il Tribunale di Firenze, con sentenza del 17 luglio 2020, ha statuito che “l’art. 36 Cost. si limita a stabilire il principio di sufficienza ed adeguatezza della retribuzione, prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva e che l’art. 3 Cost. impone l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e non anche nei rapporti interprivati”.

I fatti di causa

Alcuni lavoratori somministrati ricorrevano al Giudice di prime cure avverso la società di somministrazione e la società utilizzatrice. Uno dei ricorrenti – nella specie una lavoratrice assunta presso la somministratrice a tempo determinato – nel proprio ricorso rivendicava, tra l’altro, di avere prestato attività lavorativa a favore della utilizzatrice dal 22 giugno 2015 al successivo 30 settembre, con inquadramento nel VI livello del CCNL Vigilanza Privata Armata (il “CCNL”), orario di lavoro full time e mansioni di addetta alla sala conta.

Tanto premesso, la ricorrente deduceva il suo diritto ad essere inquadrata nel IV livello CCNL anziché nel VI livello formalmente a lei attribuito, chiedendo la condanna dell’utilizzatrice, in solido con la società di somministrazione, al pagamento delle relative differenze retributive, come da conteggi allegati al ricorso.

Si costituivano in giudizio, con separate memorie di costituzione, l’utilizzatrice e la somministratrice, contestando le domande dei ricorrenti e chiedendone la reiezione, in quanto infondate; con vittoria di spese.

In particolare, la somministratrice rivendicava:

  • la carenza di legittimazione passiva non essendo tenuta ad indagare il livello di inquadramento dei lavoratori somministrati e
  • segnalava la tardività del deposito del documento inerente ai conteggi.

La causa veniva istruita sulla base della documentazione offerta in comunicazione, avendo il giudice rigettato le ulteriori istanze istruttorie avanzate delle parti e veniva decisa ai sensi dell’art. 83, D.L. 18/2020, conv. in L. 27/2020, previa concessione alle stesse dei doppi termini per il deposito di note e repliche.

La decisione del Tribunale

Nel caso in esame, il giudice adito ha sostenuto che non era stato specificamente contestato (circostanza comunque provata documentalmente) lo svolgimento delle mansioni di “addetta alla sala conta” (ovvero di addette all’attività di contazione e trattamento del denaro, ricompresa, nella esemplificazione contenuta all’art. 31 CCNL).  Il CCNL prevede, con riferimento alla predetta attività, l’inquadramento nel VI livello per i primi 24 mesi di effettivo servizio e, successivamente, il diritto del lavoratore al passaggio automatico nel livello V e nel livello IV, una volta decorsi i termini specificamente indicati nell’art. 31 cit.

Conseguentemente, secondo il giudice è corretto l’iniziale inquadramento della ricorrente nel VI livello per l’espletamento dell’attività di contazione denaro, non avendo, peraltro, maturato l’anzianità di servizio necessaria per il passaggio automatico nel V e nel IV livello.

Né, sempre a parere del giudice, rileva che il IV livello fosse stato attribuito, al momento dell’assunzione, all’altra ricorrente, atteso che, “secondo un consolidato e condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, non esiste nel nostro ordinamento un principio che imponga al datore di lavoro, nell’ambito dei rapporti privatistici, di garantire parità di retribuzione e/o di inquadramento a tutti i lavoratori svolgenti le medesime mansioni, posto che l’art. 36 Cost. si limita a stabilire il principio di sufficienza ed adeguatezza della retribuzione, prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva e che l’art. 3 Cost. impone l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e non anche nei rapporti interprivati; sicché, la mera circostanza (priva di ulteriori specificazioni) che determinate mansioni siano state in precedenza affidate a dipendenti cui il datore di lavoro riconosceva una qualifica superiore, è del tutto irrilevante per il dipendente al quale, con diversa e inferiore qualifica, siano state affidate le stesse mansioni (v. Cass. Sez. L, Sentenza n. 16015 del 19/07/2007 0, Rv. 598373 – 01).

Sotto altro aspetto, a parere del giudice, non può neanche essere lamentata la violazione dell’art. 36 Cost., costituendo

•          il contratto collettivo applicabile (ed in concreto applicato dal datore di lavoro) ed

•          i relativi minimi retributivi

il parametro di cui tenere conto ai fini del giudizio circa l’adeguatezza e sufficienza della retribuzione, ai sensi dell’articolo invocato (non ravvisandosi, nella fattispecie, anche a fronte delle – generiche – allegazioni della ricorrente, la violazione del principio di proporzionalità in relazione alla qualità e quantità del lavoro prestato).

A fronte di tutto quanto sopra, il Giudice di prime cure ha rigettato integralmente ogni domanda di cui al ricorso introduttivo con condanna alle spese a carico di parte ricorrente.

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Riduzione del trattamento economico del lavoratore, quando può essere legittimo

Considerazioni ai tempi del COVID-19: l’emergenza in atto integra l’ipotesi di causa di forza maggiore per la sospensione della retribuzione?

La situazione pandemica da diffusione del COVID-19 in corso integra l’ipotesi di causa di forza maggiore?

A fronte di questo quesito, si è ritenuto opportuno volgere qualche breve riflessione in merito all’incidenza che questa vicenda potrà avere sui rapporti di lavoro, valutando se la peculiare contingenza possa o meno esonerare l’operatore impossibilitato nell’adempimento del contratto – nel caso di specie, il datore di lavoro che sospende il pagamento della retribuzione – e ad invocare la forza maggiore.

La natura onerosa e sinallagmatica del rapporto di lavoro subordinato

Come noto, all’art. 2094 Cod. Civ., il legislatore definisce prestatore di lavoro subordinato “chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.

Ai fini di nostro interesse, dall’analisi di predetta norma emerge che nel contesto di un rapporto di lavoro subordinato: 

  • il lavoratore o prestatore di lavoro si obbliga a svolgere una specifica attività lavorativa e 
  • il datore di lavoro si obbliga a pagare una retribuzione. 

Aggiungiamo che il rapporto di lavoro subordinato è, tra l’altro, caratterizzato: 

  • dall’onerosità, nel senso che uno degli elementi essenziali che lo caratterizza è il riconoscimento della retribuzione al lavoratore; 
  • da prestazioni sinallagmatiche, nel senso di prestazioni corrispettive, in concreto prestazione di lavoro a fronte di retribuzione.

La relazione tra datore di lavoro e prestatore può essere letta anche sotto il profilo della posizione debitoria e creditoria. 

In quest’ottica, il lavoratore subordinato è tenuto a un’obbligazione di fare, ovvero la locatio operarum, tradizionalmente intesa come obbligazione di mezzi (le proprie energie lavorative), il datore di lavoro è tenuto a corrispondergli la retribuzione.

Sospensione della retribuzione in ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa di forza maggiore

Ciò chiarito, quando il datore di lavoro può sospendere legittimamente il pagamento della retribuzione?

Traslando il contenuto delle disposizioni contenute negli artt. 1206 e 1218 c.c. al rapporto di lavoro subordinato, in forza del sinallagma sotteso al rapporto di lavoro, il datore di lavoro sarà tenuto al pagamento della retribuzione sempre e comunque, ad eccezione del caso di impossibilità della prestazione lavorativa quindi in presenza di un fatto impossibilitante che esprima l’assenza della sua colpa e colpisca il substrato aziendale della prestazione lavorativa (es. alluvione, terremoto). 

In tutti gli altri casi, a fronte della messa a disposizione della prestazione di lavoro da parte del lavoratore, il datore di lavoro non può sottrarsi al pagamento dello stipendio.

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Fonte: versione integrale pubblicata su Guida al lavoro de Il Sole 24 ore.