Nell’ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la verifica da parte del Giudice del requisito della manifesta insussistenza del fatto posto alla base del recesso, dal quale discende la possibilità di reintegra del dipendente, deve riguardare tanto l’esistenza delle esigenze tecniche, produttive ed organizzative indicate dall’azienda, quanto la possibilità di ricollocare altrove il lavoratore all’interno della struttura aziendale.
Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 4 maggio 2021, ha raggiunto questa conclusione sul presupposto che, anche se il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti l’attività produttiva è rimesso alla libera valutazione del datore di lavoro, senza che il Giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, compete allo stesso Giudice il controllo in ordine alla effettività e non pretestuosità del riassetto organizzativo operato.
La vicenda sulla quale è stato chiamato a pronunciarsi il Tribunale è relativa al licenziamento per giustificato motivo oggettivo di una dipendente di un’azienda specializzata in servizi fisioterapeutici, motivato da ragioni economiche stante la contrazione del fatturato registrato dalla società datrice di lavoro nei tre anni precedenti. La Società, dunque, riportava nella lettera di licenziamento, la necessità di attuare ”una riduzione dei costi mediante un riassetto organizzativo aziendale per il quale le mansioni espletate [dalla lavoratrice], saranno svolte personalmente dall’amministratore e assorbite dai nuovi sistemi informativi e telematici”. La Società, pertanto, non esistendo, come dalla stessa dichiarato, la possibilità di adibire la dipendente a posizioni equivalenti, la licenziava.
La dipendente impugnava il recesso facendo leva sul fatto che alla base del licenziamento non vi era stato un effettivo riassetto aziendale nonché che l’azienda non aveva compiutamente assolto al c.d. obbligo di repêchage. Chiedeva, dunque, l’accertamento della mancata sussistenza del fatto posto alla base del licenziamento ex art. 18, commi 4 e 7, dello Statuto dei Lavoratori punito con la reintegrazione nel posto di lavoro oltre 12 mensilità a titolo di risarcimento del danno.
Il Tribunale ha ritenuto illegittimo il licenziamento, richiamando, in primo luogo, l’orientamento giurisprudenziale per cui il motivo oggettivo di recesso può identificarsi anche soltanto in una diversa distribuzione delle mansioni tra i dipendenti in servizio per la gestione più economica ed efficiente dell’azienda, con la conseguenza che la posizione del dipendente che svolgeva la mansione in modo esclusivo risulti in esubero (Cass. n. 19185/2016 e n. Cass. n. 29238/2017). Al riguardo, prosegue il Tribunale, non basta che i compiti un tempo svolti dal dipendente licenziato siano assegnati ai colleghi ma è necessario che tale riorganizzazione sia all’origine del licenziamento anziché costituirne un mero effetto.
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Norme & Tributi Plus Diritto de Il Sole 24 Ore.
La Corte di Cassazione, con la sentenza del 16 marzo 2021, n. 7360, ha stabilito che il datore di lavoro – laddove il dipendente licenziato per giustificato motivo oggettivo si fosse reso disponibile al trasferimento solo in determinate zone – deve provare, per non incorrere nella violazione dell’obbligo del c.d. repêchage, unicamente l’impossibilità di ricollocarlo nelle sedi aziendali site in dette zone.
Una lavoratrice impugnava giudizialmente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatole a seguito della chiusura dell’unità locale ove era impiegata come store manager.
La Corte d’Appello territorialmente competente, in riforma della pronuncia di primo grado, rigettava il ricorso presentato dalla lavoratrice deducendo la mancata violazione dell’obbligo di repêchage, a fronte della disponibilità della stessa ad essere trasferita soltanto in una delle sedi della società datrice di lavoro, site in Campania o nel basso Lazio.
Avverso la decisione dei giudici di merito ricorreva in cassazione la lavoratrice.
La Corte di Cassazione ha confermato la pronuncia della Corte distrettuale e, riprendendo alcuni propri consolidati orientamenti, ha affermato preliminarmente che: “in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, non essendo configurabile sotto il profilo processuale, una divaricazione tra i suddetti oneri” (cfr. sentenza n. 5592/2016; sentenza n. 12101/2016 e sentenza n. 160/2017).
E per la Corte di Cassazione, tale onere risulta assolto dal datore allorquando riesce a dimostrare di non esserci alcuna possibilità di ricollocare il lavoratore licenziato in una sede ricompresa all’interno del territorio in cui lo stesso si è detto disposto a trasferirsi. Infatti, seppur non incomba sul lavoratore alcun onere di allegazione, una volta che lo stesso circoscrive – nella domanda giudiziale – l’ambito spaziale di interesse, consente al datore di non addure alcunché circa il possibile ricollocamento in sedi site in territori diversi.
Su tali presupposti, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della lavoratrice, ritenendo assolto da parte della società resistente l’onere di dimostrare di non avere alcun posto disponibile in Campania e nel basso Lazio.
Altri insights correlati:
La Corte costituzionale ha diramato il 24 febbraio scorso un comunicato con cui ha annunciato di aver dichiarato fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Ravenna in merito all’articolo 18, comma 7, dello Statuto dei lavoratori, così come modificato dalla Legge Fornero “là dove prevede la facoltà e non il dovere del giudice di reintegrare un lavoratore illegittimamente licenziato in mancanza di giustificato motivo oggettivo”.
La questione, fa sapere la Consulta, è stata dichiarata fondata sulla base dell’art. 3 della Costituzione
Nello specifico, la Corte costituzionale ha ritenuto irragionevole – in caso di insussistenza del fatto – la disparità di trattamento tra il licenziamento economico e quello per giusta causa. Ciò in quanto in questa ultima ipotesi è previsto l’obbligo della reintegra, mentre nell’altra è il giudice a decidere tra la tutela indennitaria e quella reintegratoria.
Viene così azzerata qualsiasi discrezionalità sanzionatoria del giudice nel licenziamento economico e viene riportata al centro del sistema la tutela reintegratoria e cancellato un pilastro della riforma del 2012.
Si attendono ora le motivazioni della sentenza che saranno depositate nelle prossime settimane.
Il Tribunale di Ravenna, con la sentenza del 7 gennaio 2021, ha stabilito che anche il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore alla mansione rientra tra le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo vietate dalla normativa emergenziale da Covid-19.
I fatti di causa
Un lavoratore ha impugnato giudizialmente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli in data 30 aprile 2020 a seguito di una sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione, accertata dal medico competente qualche giorno prima.
La società datrice di lavoro nel resistere in giudizio ha eccepito che l’inidoneità fisica in questione non rientrerebbe nelle ipotesi previste dalla normativa emergenziale che imporrebbe solo il divieto di licenziamenti aventi natura economica in senso stretto.
La decisione del Tribunale
Nell’accogliere il ricorso presentato dal lavoratore, il Tribunale, in primo luogo, ha rilevato che il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione rientra nella categoria dei licenziamenti basati su motivi oggettivi.
Il Tribunale ha poi stabilito che detta ipotesi rientra nell’ambito applicativo del blocco dei licenziamenti imposto dal legislatore per far fronte alla emergenza pandemica da Covid-19. Ciò in quanto questa tipologia di licenziamento deve considerarsi destinataria delle stesse ragioni di tutela economica e sociale che sono alla base di tutti gli altri recessi che la normativa emergenziale ha inteso espressamente impedire.
Secondo il Tribunale, per il lavoratore divenuto inidoneo alla mansione, il licenziamento deve essere considerato l’extrema ratio, evitabile con l’adozione di misure organizzative tali da consentirgli di continuare a lavorare, eventualmente passando a svolgere mansioni inferiori.
E a parere del Tribunale la società resistente avrebbe potuto svolgere tale valutazione solo all’esito del superamento della situazione di contrazione economica pressoché totale, dovuta al c.d. lockdown.
In questo contesto, vale la pena ricordare che secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale i lavoratori divenuti inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia non possono essere licenziati per giustificato motivo se possono essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori. In tal caso, il datore di lavoro è tenuto a impiegare il lavoratore in una diversa attività utilizzabile nell’impresa, secondo il suo assetto organizzativo. In sostanza, il datore di lavoro, pur non essendo tenuto a modificare il proprio assetto organizzativo, è obbligato ad assegnare all’invalido mansioni compatibili con la natura e il grado delle sue menomazioni e a reperire, nell’ambito della struttura aziendale, il posto di lavoro più adatto alle sue condizioni di salute.
Con la sentenza n. 1514/2021, pubblicata in data 25 gennaio 2021, la Corte di Cassazione, richiamando principi ormai consolidati, fornisce un quadro preciso delle ragioni inerenti all’attività produttiva che legittimano l’irrogazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ribadendo peraltro che, una volta accertata la sussistenza del motivo posto alla base del recesso, risulta superflua l’indagine sul suo eventuale carattere ritorsivo.
La pronuncia della Corte trae origine dall’impugnazione promossa da una lavoratrice avverso una sentenza della Corte d’Appello di Cagliari che aveva dichiarato legittimo il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo dalla Congregazione religiosa presso cui la dipendente ricopriva mansioni di responsabile di struttura.
In particolare la Corte distrettuale aveva ritenuto legittimo il licenziamento in considerazione dell’andamento economico negativo delle strutture gestite dalla Congregazione le quali avevano imposto una riduzione dei costi ed una rimodulazione dell’organizzazione di lavoro, realizzata tramite la soppressione del posto di lavoro della dipendente che comportava il costo più elevato per la Congregazione con la conseguente attribuzione delle mansioni ad altra religiosa che invece prestava la sua opera senza corresponsione di retribuzione.
Con il primo motivo di ricorso la ricorrente denunciava violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604 del 1966, nonché dell’art. 2697 cod. civ. adducendo che la Corte distrettuale avrebbe invertito, nella sua disamina, il rapporto di necessaria causalità tra soppressione della posizione della lavoratrice e riassegnazione delle sue mansioni ad altro personale, ritenendo erroneamente che quest’ultima potesse essere causa della prima e non già il contrario.
La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il motivo di ricorso e, richiamandosi a quanto già affermato in precedenti pronunce, ha ribadito il principio per cui la ragione inerente all’attività produttiva (art. 3 legge n. 604 del 1966) è quella che determina un effettivo ridimensionamento riferito alle unità di personale impiegate in una ben individuata posizione lavorativa, a prescindere dalla ricorrenza di situazioni economiche sfavorevoli o di crisi aziendali (cfr. Cass. n. 25201 del 2016, Cass. n. 10699 del 2017, Cass. n. 24882 del 2017).
Fissato tale principio generale, la Corte si sofferma ad individuare le circostanze che legittimano l’irrogazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo fondato su una modifica della struttura organizzativa, le quali possono individuarsi sia nella esternalizzazione a terzi dell’attività a cui è addetto il lavoratore licenziato, sia nella soppressione della funzione cui il lavoratore è adibito sia nella ripartizione delle mansioni di questi tra più dipendenti già in forze (Cass. n. 21121 del 2004, Cass. n. 13015 del 2017, Cass. n.24882 del 2017) sia nella innovazione tecnologica che rende superfluo il suo apporto, sia nel perseguimento della migliore efficienza gestionale o produttiva o dell’incremento della redditività.
In tutti questi casi, prosegue la Corte, resta ferma la non sindacabilità dei profili di congruità ed opportunità delle scelte datoriali a cui fa da contraltare il controllo sia sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall’imprenditore a giustificazione del recesso sia sul nesso causale tra l’accertata ragione e l’intimato licenziamento.
Al riguardo, continua la Corte richiamando precedenti pronunce (cfr. Cass. n. 25201 del 2016 e da ultimo Cass. n. 3819 del 2020), l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa.
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Il Quotidiano del Lavoro de Il Sole 24 Ore.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 16253 del 29 luglio 2020, si è espressa circa l’applicabilità della tutela reintegratoria c.d. “attenuata” (con ricostituzione del rapporto e risarcimento fino a un massimo di 12 mensilità) nei casi di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Il caso di specie trae origine dall’impugnazione giudiziale di un lavoratore avverso il licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo in relazione alla intervenuta cessazione dell’appalto ove lo stesso era impiegato.
La Corte d’Appello di Roma, adita in sede di reclamo dalla società datrice di lavoro, accoglieva la domanda del lavoratore confermando la decisione di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento sul presupposto che la società resistente non aveva dimostrato la relazione sussistente fra la perdita dell’appalto e il venir meno della utilità del lavoratore in esubero.
In particolare, il Collegio d’appello ha escluso che la cessazione dell’appalto potesse costituire di per sé un giustificato motivo di licenziamento in assenza della prova del necessario nesso causale tra la ragione organizzativo produttiva posta a base del recesso e la soppressione del posto di lavoro atteso che il dipendente non era addetto esclusivamente né prevalentemente a tale appalto.
Avverso la decisione di merito ricorreva in cassazione la società soccombente, lamentando la erronea applicazione dei commi 4 e 7 dell’art. 18, della L. 300/1970 nella loro attuale formulazione.
La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso presentato dalla società, si è soffermata ad analizzare il discrimine tra l’applicazione della tutela indennitaria prevista dall’art. 18, co. 5 (indennità omnicomprensiva compresa tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità) e la tutela reintegratoria “attenuata” prevista dall’art. 18, co.4 nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, alla luce di quanto disposto dall’art. 18, co. 7 della L. 300/1970.
Quest’ultima previsione, giova ricordarlo, concede al giudice il potere di applicare la disciplina della tutela reintegratoria “attenuata” nei casi in cui accerti “la manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per g.m.o”.
Secondo la Suprema Corte le intenzioni del legislatore sarebbero da interpretare nel senso di attribuire natura residuale alla tutela reintegratoria fungendo la stessa da eccezione alla regola della tutela indennitaria nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Tuttavia, continua la Suprema Corte, richiamando una recente pronuncia (Cass. n. 29101 del 11 novembre 2019), in tema di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, “la ritenuta mancanza di un nesso causale tra recesso datoriale e motivo addotto a suo fondamento è sussumibile nell’alveo di quella particolare evidenza richiesta per integrare la manifesta insussistenza del fatto che giustifica, ai sensi dell’art. 18, co. 7, L. 300/1970, come modificato dalla l. 92/2012, la tutela reintegratoria attenuata”.
Pertanto, nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha osservato che “l’assoluto difetto di collegamento tra la cessazione dell’appalto e l’attività lavorativa svolta dal lavoratore, hanno indotto la Corte ad escludere ictu oculi la sussistenza del nesso di causalità e quindi del fatto costituente giustificato motivo oggettivo di licenziamento”. Tale insussistenza ictu oculi, continua la Corte, si tradurrebbe nella “manifesta insussistenza del fatto proprio in quanto lo stesso appare difettare tout court in modo così evidente da aver correttamente indotto il giudice di secondo grado ad optare per la tutela reintegratoria attenuata di cui al comma 4 dell’art. 18 nel suo combinato disposto con il settimo comma”
◊◊◊◊
La sentenza in commento giunge ad una conclusione che desta non poche perplessità circa l’annosa incertezza applicativa della tutela reintegratoria nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo giudicati illegittimi. La conclusione a cui giunge la Corte sembrerebbe in un certo senso controversa in quanto dapprima sostiene la natura residuale della tutela reintegratoria rispetto a quella indennitaria per poi invece ricollegare il concetto di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento (che consente al giudice di applicare la tutela reintegratoria attenuata) a tutti i casi in cui il giudice non ritenga sussistere un nesso causale tra essi.
Altri Insights correlati:
Il D.L. 34/2020 (c.d. Decreto Rilancio), recentemente convertito con modificazioni nella Legge 77/2020, ha esteso per cinque mesi, decorrenti dal 17 marzo 2020 e fino al 17 agosto 2020, i termini del divieto di licenziamento: durante tale arco temporale non potranno essere avviate procedure di licenziamento collettivo e quelle pendenti, avviate dopo il 23 febbraio, saranno sospese per il medesimo periodo.
Allo stesso modo, per il medesimo periodo è stato prorogato il divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 della Legge 604/1966 e sono state sospese le procedure di licenziamento ex articolo 7, L. 604/1966 in corso .
Leggi qui per sapere le novità nel dettaglio.
Il Decreto Rilancio ha così modificato quanto disposto dal Decreto Cura Italia, recante misure urgenti per contrastare l’emergenza COVID 19, che all’art. 46 prevede che “a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24 della legge 23 luglio 1991 n. 223 è precluso per 60 giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3, della legge 15 luglio 1966, n 604”.Pertanto, dal 17 marzo 2020 al 16 maggio 2020, vi è il divieto di avviare procedure di riduzione collettiva del personale e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente al 23 febbraio 2020. Inoltre, sino al 16 maggio 2020 i datori di lavoro, indipendentemente dal numero di dipendenti in forza, non possono intimare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. I datori di lavoro potranno, invece, procedere con il licenziamento per giusta causa, il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, il recesso da un contratto di apprendistato al termine del periodo di formazione, il recesso in prova, il licenziamento per fruizione del pensionamento per la quota 100 nonché per la fruizione della pensione di vecchiaia, il licenziamento per superamento del periodo di comporto e per inidoneità alle mansioni affidate ed i licenziamenti dei dirigenti.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 1499 del 21 gennaio 2019, ha confermato il principio di diritto secondo il quale, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, debba ritenersi dimostrato l’avvenuto tentativo di repêchage da parte del datore di lavoro che, in alternativa al licenziamento, proponga al dipendente in esubero di modificare il proprio orario di lavoro.
I fatti
Una lavoratrice, assunta presso una società operante nel settore dei servizi assicurativi e turistici e addetta presso l’area banco e biglietteria, veniva licenziata per giustificato motivo oggettivo a causa della dismissione dell’area presso cui era impiegata. In alternativa al licenziamento la Società le aveva proposto la trasformazione del rapporto di lavoro da full time in part time, che tuttavia la stessa aveva rifiutato.
La lavoratrice adiva, dunque, il Tribunale del lavoro territorialmente competente affinché dichiarasse illegittimo il licenziamento intimatole con tutte le conseguenze di legge che ne sarebbero derivate. A fondamento della propria presta la lavoratrice adduceva il fatto che l’offerta di modificare l’orario di lavoro non poteva costituire un valido tentativo di repêchage, avendo peraltro la società assunto una nuova risorsa a tempo pieno a distanza di un anno dal licenziamento, affidandole anche mansioni da lei stessa dapprima espletate.
Il Tribunale accoglieva la domanda della lavoratrice ma la sua pronuncia veniva riformata dalla Corte di Appello di Ancona adita dalla società.
La Corte di Appello, in particolare, dichiarava legittimo il licenziamento sull’assunto che:
La lavoratrice ricorreva così in cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello.
La decisione della Corte
La Corte di Cassazione adita ha confermato la decisione della Corte distrettuale ritenendo la proposta di trasformazione del rapporto di lavoro da full-time a part-time sufficiente a comprovare l’avvenuto tentativo di repêchage da parte del datore di lavoro.
La Corte di Cassazione ha, altresì, sottolineato come non potesse neppure attribuirsi valore all’assunzione di nuova risorsa, poiché detta assunzione era avvenuta in conseguenza della cessazione di un altro rapporto di lavoro, risolto in un momento successivo alla risoluzione del rapporto della lavoratrice ricorrente.
Conclusioni
Dalla sentenza in commento si evince, in sostanza, che debba ritenersi dimostrato l’avvenuto tentativo di repêchage da parte del datore di lavoro che, in alternativa al licenziamento, proponga al dipendente in esubero di modificare il proprio orario di lavoro.