La legge che regola i licenziamenti collettivi in Italia prevede che l’individuazione dei lavoratori sia

effettuata con l’applicazione di specifici criteri di scelta da applicare all’intero complesso

aziendale. Tuttavia, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai unanime, da ultimo ribadito

dalla Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con sentenza n. 3511 del 6 febbraio 2023, in presenza di

determinati presupposti, il datore di lavoro può restringere la platea dei lavoratori interessati dalla

riduzione di personale anche soltanto a quelli addetti ad un determinato reparto, settore o sede

dell’azienda. In particolare, secondo la Cassazione, le esigenze che possono giustificare suddetto

restringimento devono essere coerenti con quanto indicato dal datore di lavoro nella comunicazione

di avvio della procedura di licenziamento collettivo ufficiale, consentendo in tal modo alle

organizzazioni sindacali di verificare che: (i) l’esubero del personale sia realmente determinato

dalle ragioni strettamente collegate alle unità, reparti o settori interessati, indicate dal datore di

lavoro; (ii) i lavoratori interessati dal licenziamento non svolgano mansioni fungibili con quelle dei

dipendenti assegnati ad altri reparti o ad altre sedi aziendali non coinvolti nella riorganizzazione.

Con l’ordinanza n. 1965 del 23 gennaio 2023, la Cassazione afferma che, ai fini dell’applicazione della procedura di licenziamento collettivo di cui alla L. 223/1991, il requisito dimensionale di almeno quindici dipendenti deve essere riferito all’azienda nel suo complesso e non alla singola unità produttiva.

I fatti di causa

Nel caso esaminato dalla ordinanza in commento, la lavoratrice era stata licenziata per giustificato motivo oggettivo. Il Tribunale di Catania aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento poiché intimato senza l’osservanza della procedura prevista per i licenziamenti collettivi di cui alla L. 223/1991.

La Corte d’Appello di Catania confermava la decisione del giudice di primo grado e, quindi, la reintegra della dipendente.

L’ordinanza della Corte di Cassazione

Gli Ermellini, nel confermare l’illegittimità del licenziamento irrogato alla lavoratrice, rilevano che il requisito dimensionale nella procedura di licenziamento collettivo deve essere valutato con riferimento all’azienda nella sua globalità e non alle singole articolazioni territoriali.

Difatti, ad avviso della Corte di Cassazione, da un’interpretazione letterale dell’art. 24 della legge 223/1991, ai sensi dell’art. 12 delle preleggi, emerge la volontà del legislatore in forza del quale il termine “impresa” non è da confondere con in concetto di “unità produttiva” a cui fa riferimento l’art. 18 della Legge 300/70.

Quanto sopra, deriverebbe anche da una diversa ratio delle disposizioni in materia di licenziamento collettivo le quali hanno lo scopo sia di tutelare il lavoratore nella sua individualità ma anche di eliminare o ridurre l’impatto sociale del provvedimento intimato complesso dei lavoratori.

Pertanto, stante la diversità degli interessi tutelati, la L. 223/1991 non può in alcun modo essere sovrapposta all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori che, ai fini dell’applicazione della tutela reale, richiede la valutazione del requisito dimensionale nell’unità produttiva di adibizione del dipendente licenziato.

Alla luce dei principi sopra esposti, la Corte ha rigetta il ricorso della società, confermando l’illegittimità del recesso e, il conseguente, diritto del dipendente alla reintegra.

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In occasione del nostro Team Meeting di questa settimana abbiamo approfondito diversi temi, tra questi l’ambito di applicazione della procedura di licenziamento collettivo, anche alla luce delle ultime pronunce della Corte di Cassazione.

Il 23 settembre scorso è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D.L. 144/2022 (c.d. Decreto aiuti-ter), il quale introduce significative novità a beneficio dei lavoratori, stabilendo, da un lato, nuove e diverse indennità per i dipendenti, i lavoratori autonomi e le altre categorie di soggetti, in aggiunta a quanto previsto dal decreto aiuti (D.L. 50/2022) e, dall’altro, apportando alcuni correttivi alle norme introdotte dalla legge di bilancio 2022 in materia di cessazione delle attività produttive di grandi aziende.

Tra le tante importanti novità introdotte dal decreto aiuti-ter la più significativa e rilevante, nell’ambito dei rapporti di lavoro, è quella in tema di delocalizzazioni.

Con la legge di bilancio 2022 (L. 234 di dicembre 2021), era stata introdotta nel nostro sistema giuridico una nuova quanto articolata procedura, destinata alle imprese con almeno 250 lavoratori, avente lo scopo dichiarato di garantire la salvaguardia del tessuto occupazionale e produttivo. In particolare, nell’ipotesi di chiusura o riduzione di attività, i datori di lavoro interessati hanno l’obbligo di avviare una procedura di consultazione e di presentare e discutere con le rappresentanze sindacali, le regioni interessate, il Ministero del lavoro, il Ministero dello sviluppo economico e l’ANPAL, un piano finalizzato a limitare le ricadute occupazionali ed economiche.  

Ora, con l’entrata in vigore del decreto aiuti-ter, il governo ha apportato alcuni correttivi – tutti di natura evidentemente restrittiva – alla procedura introdotta dalla legge di bilancio ed ha introdotto una disposizione specifica che prevede la restituzione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari o vantaggi economici a carico della finanza pubblica di cui hanno beneficiato gli stabilimenti produttivi oggetto delle cessazioni o ridimensionamenti di attività.

Ma procediamo con ordine e vediamo le novità introdotte dal decreto in commento.

In primo luogo, vengono estesi i tempi dettati dalla procedura, adesso chiaramente dichiarata “in materia di delocalizzazione”.

Precisamente, viene raddoppiato (portandolo da novanta a centottanta giorni) il periodo successivo all’avvio della comunicazione di apertura della procedura consultiva, durante il quale sono da considerarsi radicalmente nulli eventuali licenziamenti che dovessero essere intimati dal datore di lavoro.

Viene inoltre quadruplicata (passando da trenta a centoventi giorni) la durata del periodo nel quale il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali, con le regioni, i ministeri del lavoro e dello sviluppo economico, nonché l’ANPAL devono discutere il piano sopracitato.

Viene poi eliminata la previsione contenuta nella formulazione originaria della norma secondo la quale, in caso di avvio della procedura di licenziamento collettivo a seguito della mancata sottoscrizione del piano, la durata ordinaria della consultazione obbligatoria si sarebbe ridotta da 75 a 30 giorni. Con il decreto aiuti-ter, l’eventuale procedura di licenziamento collettivo di cui alla legge 223/91 deve essere seguita per intero.

Ed ancora, la sanzione per la maggiorazione del “ticket” di licenziamento, in caso di mancata sottoscrizione del piano da parte delle organizzazioni sindacali, viene elevata del 500%.

Infine, come si è detto, viene introdotto l’obbligo della restituzione di sovvenzioni a carico della finanza pubblica di cui hanno beneficiato gli stabilimenti produttivi oggetto di cessazione o ridimensionamento percepiti nei dieci anni precedenti, in proporzione alla percentuale di riduzione del personale. La disposizione si applica nel caso in cui la riduzione di personale sia superiore al 40% di quello impiegato mediamente nell’ultimo anno, a livello nazionale o locale ovvero nel reparto oggetto della delocalizzazione o chiusura.

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LaCorte di Cassazione, con la sentenza n. 11638 datata 11 aprile 2022, ha stabilito che la configurazione di un unico centro di imputazione dei rapporti di lavoro comporta che la verifica degli esuberi debba essere effettuata tenendo conto della complessiva platea e, quindi, anche dei lavoratori in forza presso le altre società dell’accertato unico complesso aziendale e non solo di quelli della società formale datrice di lavoro.

I fatti di causa

In primo e secondo grado veniva accertata la sussistenza di un unico complesso aziendale tra due società convenute in giudizio e dichiarato illegittimo il licenziamento intimato a un lavoratore all’esito di una procedura di licenziamento collettivo attivata dalla sua impresa formale datrice di lavoro.

Secondo i giudici di merito, la messa in mobilità del lavoratore era ricollegabile alla situazione occupazionale comprensiva del personale dipendente dell’altra società convenuta all’epoca già acquisita e controllata al 100% dalla prima impresa.

Tale circostanza, secondo i giudici di merito, comportava la necessità che la verifica degli esuberi, in relazione alla procedura collettiva avviata dalla formale datrice di lavoro, dovesse essere effettuata tenendo conto anche dei lavoratori in forza presso l’altra società e non solo di quelli della formale datrice di lavoro.

Avverso la decisione di merito le società soccombenti ricorrevano in cassazione, affidandosi a 4 motivi, a cui resisteva il lavoratore con controricorso. 

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione adita ha ritenuto l’iter valutativo compiuto dalla Corte territoriale in ordine alla sussistenza del centro unico di interessi immune da censure.

A parere della Corte di Cassazione, gli accertati elementi di collegamento fra le società andavano oltre, per caratteristiche e finalità, le connotazioni di una mera sinergia fra imprese consociate. Tali elementi sconfinavano in una vera e propria compenetrazione di mezzi e di attività, sintomatica quest’ultima della sostanziale unicità soggettiva e, dunque, di unico centro decisionale.

Pertanto, conseguenza ineludibile della configurabilità di un unico soggetto datoriale è, secondo la Corte di Cassazione, la necessità che la procedura collettiva coinvolgesse i lavoratori dell’unico complesso aziendale risultante dalla integrazione delle due società, non essendo dedotti e comprovati i presupposti per la delimitazione della platea dei lavoratori da licenziare al solo organico del formale datore di lavoro

In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, condannando le due società alle spese del giudizio

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9800 del 25 marzo 2022, ha stabilito che la procedura di licenziamento collettivo – se la comunicazione di cui all’art. 4, co. 9, L. n.223/1991 non indica correttamente quali sono state le modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori interessati – è illegittima e, di conseguenza, il licenziamento intimato all’esito deve essere annullato. 

I fatti di causa

La Corte d’appello di Reggio Calabria, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento collettivo intimato dalla società datrice di lavoro ai ricorrenti con comunicazione ex art. 4, co. 9, L. n.223/1991.

La Corte territoriale dichiarava risolto il rapporto di lavoro intercorso tra le parti, condannando la società al pagamento di una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.  Ciò in quanto, a suo dire, il licenziamento in questione risultava affetto da violazione di carattere formale consistente nella mancata indicazione nella comunicazione dei punteggi concreti attribuiti a ciascun lavoratore e dei dati fattuali relativi ai carichi di famiglia, dei punteggi astratti previsti in relazione a ciascun criterio nonché dei dati relativi all’anzianità di servizio di ciascun lavoratore.

Per la cassazione della decisione proponevano ricorso sei degli originari lavoratori sulla base di quattro motivi; la società intimata resisteva con tempestivo controricorso. Il Procuratore generale concludeva per l’accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri.

La decisione della Corte di Cassazione

Secondo la Corte di Cassazione, la mancata puntuale indicazione, nella comunicazione ex art. 4, co. 9, L. n. 223/91, delle modalità con cui sono stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, non permette al lavoratore di comprendere per quale ragione il licenziamento abbia interessato proprio lui e non altri colleghi e, quindi, ostacola la contestazione del recesso datoriale. Ciò comporterebbe un’ipotesi di illegittimità della procedura legislativamente prescritta, poiché tale mancanza non integrerebbe una mera irregolarità formale ma comporterebbe una vera e propria violazione dei criteri di scelta. L’illegittimità de quo, a parere della Corte, non può che determinare l’annullamento del licenziamento e la conseguente condanna del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori alla reintegrazione del posto di lavoro e al pagamento di una indennità risarcitoria in misura non superiore alle 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

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La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 7400 del 7 marzo 2022, ha statuito che il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, intimato per le stesse ragioni già addotte a fondamento del licenziamento collettivo precedentemente avviato, è nullo in quanto realizza uno schema fraudolento.

I fatti di causa

Un dipendente, licenziato per giustificato motivo oggettivo, impugnava il provvedimento espulsivo dinanzi il Tribunale di Roma perché fondato sugli stessi motivi che avevano originato in precedenza un licenziamento collettivo presso la medesima società.

Il Tribunale adito dichiarava nullo il licenziamento, non avendo la società rispettato gli adempimenti previsti dalla L. n. 223 del 1991, in quanto fondato sulle medesime ragioni del collettivo. In particolare, la società non aveva coinvolto le organizzazioni sindacali né aveva attuato la dovuta comparazione tra la posizione del dipendente licenziato e quella degli altri dipendenti oggetto del licenziamento collettivo.

La società impugnava la sentenza dinanzi la Corte di Appello di Roma che confermava la pronuncia di primo grado, sottolineando, innanzitutto, che le ragioni poste a fondamento delle due tipologie di licenziamento erano sostanzialmente sovrapponibili. Inoltre, la Corte d’Appello osservava che (i) il licenziamento collettivo si era concluso senza esuberi per effetto della totale adesione dei destinatari alla proposta di esodo volontario incentivato e (ii) nell’anno trascorso tra la cessazione della procedura collettiva e il licenziamento impugnato nessun cambiamento era intervenuto presso la società.

Infine, per i giudici d’appello, proprio in assenza di ragioni sopravvenute che avrebbero potuto giustificare il licenziamento individuale, la mancata inclusione del dipendente nella procedura collettiva gli aveva precluso la possibilità di avvalersi del raffronto della sua posizione con quelle dei dipendenti inseriti nel collettivo.

La società datrice di lavoro, dunque, impugnava la sentenza della Corte d’Appello in cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

Investita della questione, la Corte di Cassazione conferma le pronunce dei giudici di merito e, richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali, osserva come non sia consentito al datore di lavoro tornare sulle scelte compiute in relazione al numero, alla collocazione aziendale ed ai profili professionali dei lavoratori in esubero, nonché ai criteri di scelta dei singoli lavoratori da estromettere, attraverso ulteriori e successivi licenziamenti individuali la cui legittimità è subordinata alla individuazione di situazioni di fatto diverse da quelle poste a base del licenziamento collettivo (cfr Cass. 16 gennaio 2020, n. 808).

A tal proposito, i Giudici di legittimità ricordano che «realizza uno schema fraudolento ai sensi dell’articolo 1344 del codice civile il licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto per gli stessi motivi già addotti a fondamento di un precedente licenziamento collettivo». Nello specifico, prosegue la Corte, la peculiarità del contratto in frode alla legge consiste nel fatto che «le parti raggiungono, attraverso accordi contrattuali, il medesimo risultato vietato dalla legge. Nonostante il mezzo impiegato sia lecito, è illecito invece il risultato che, attraverso l’abuso del mezzo e la distorsione della sua funzione ordinaria, si vuole in concreto realizzare», come nel caso di specie.

La Corte di Cassazione respinge anche la censura della società per cui non era consentito ai Giudici aditi entrare nel merito delle scelte tecniche organizzative e produttive dell’imprenditore. Al riguardo, per la Corte di Cassazione, la Corte d’appello si è limitata a rilevare la sovrapponibilità delle ragioni poste a fondamento del licenziamento collettivo e di quelle addotte per il licenziamento individuale impugnato, traendo da tale accertamento l’illegittimità del provvedimento espulsivo.

Questa conclusione, secondo la Corte, è sufficiente a dichiarare il licenziamento illegittimo, proprio perché la gestione procedimentalizzata del licenziamento collettivo ha lo scopo di realizzare l’effettivo coinvolgimento del sindacato nelle scelte organizzative dell’impresa vincolando l’imprenditore al loro rispetto anche dopo la chiusura della procedura. Per tale ragione, il datore di lavoro – in un momento successivo alla procedura collettiva – non può riconsiderare quanto comunicato in sede sindacale in relazione al numero, alla collocazione aziendale, ai profili professionali dei lavoratori in esubero nonché ai criteri di scelta dei dipendenti.

In definitiva, a parere della Corte di Cassazione, il licenziamento individuale deve essere fondato su situazioni di fatto diverse da quelle poste a base del licenziamento collettivo.

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La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 1242 del 17 gennaio 2022, si è pronunciata in merito alla limitazione, ad un determinato reparto, della platea dei dipendenti da licenziare nell’ambito di una procedura collettiva, precisando i requisiti affinché tale limitazione possa essere ritenuta legittima.

I fatti di causa

La vicenda trae origine dalla procedura di licenziamento collettivo avviata da una società per ragioni strutturali conseguenti all’esigenza di un rinnovamento delle strategie aziendali volta al mantenimento di competitività sul mercato. Sebbene nella comunicazione di avvio della procedura si facesse esclusivo riferimento alle esigenze di ristrutturazione dell’intero complesso aziendale, la società limitava l’applicazione dei criteri di scelta ai dipendenti di talune sedi.

A fronte dell’impugnazione del licenziamento da parte di un dipendente, i giudici di Napoli, nel primo e nel secondo grado di giudizio, dichiaravano illegittimo il licenziamento per violazione dei criteri di scelta, con conseguente condanna del datore di lavoro alla reintegrazione in servizio del dipendente e al pagamento in suo favore delle retribuzioni medio tempore maturate, con il limite delle 12 mensilità, in applicazione dell’art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori.

Avverso la sentenza della Corte Territoriale, la società ricorreva in cassazione eccependo, da un lato, la violazione degli artt. 4 e 5 della Legge 223/1991 con riferimento alla dichiarata illegittimità della limitazione della platea dei licenziandi a determinate unità o reparti e, dall’altro, per violazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori per essere stata condannata alla reintegrazione in servizio del dipendente.

La decisione della Corte di Cassazione

Con un’approfondita motivazione, la Corte di legittimità ha rigettato il ricorso presentato dall’azienda, precisando che la limitazione dei dipendenti da licenziare, per essere valida, presuppone che il datore di lavoro, nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della legge 223/1991, indichi sia le ragioni in base alle quali i licenziamenti sono circoscritti ai dipendenti di una certa unità o di un determinato settore, sia le motivazioni per cui non ritenga di ovviare alla risoluzione dei rapporti con il trasferimento a unità produttive vicine.

La regola generale, secondo cui i lavoratori da licenziare devono essere individuati nell’ambito del complesso aziendale, non impedisce, di per sé, di limitare la platea degli interessati agli addetti a un determinato settore o reparto. A tal fine, precisa la Corte, è tuttavia necessario che (i) le esigenze tecnico-produttive vengano puntualmente indicate nella comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo e (ii) il datore di lavoro dia prova delle ragioni che giustificano l’effettuazione della scelta entro i confini di un ambito più ristretto.

La specificazione all’interno della comunicazione richiesta dall’art. 4 è finalizzata a far sì che (i) le organizzazioni sindacali siano in grado di verificare che tra le ragioni che determinano l’esubero di personale e i dipendenti licenzianti sussista un adeguato nesso di causalità e (ii) la delimitazione della platea dei lavoratori, cui è destinato il provvedimento di licenziamento, sia il frutto delle effettive esigenze organizzative alla base della riduzione del personale, adeguatamente esposte nella comunicazione medesima e rispetto alle quali deve esserci piena coerenza.

La Corte di Cassazione ha, altresì, precisato che nella scelta dei soggetti da coinvolgere in un licenziamento collettivo – ai fini dell’esclusione della comparazione con i lavoratori di professionalità equivalente addetti a unità produttive non soppresse e dislocate sul territorio nazionale – non assume alcun rilievo la circostanza che per mantenere in servizio un lavoratore della sede soppressa occorrerebbe trasferirlo presso un’altra sede, con l’aggravio di costi che ne consegue per l’impresa.

A tale proposito la Corte rileva che l’articolo 5 della Legge 223/1991, nel dettare i parametri per l’individuazione dei lavoratori da licenziare, non fa riferimento alla sopravvenienza di costi aggiuntivi né alla dislocazione territoriale delle sedi.

Da ultimo, con riferimento alle conseguenze connesse alla dichiarata illegittimità del licenziamento, la Suprema Corte, richiamando i propri precedenti giurisprudenziali, ha ribadito come, nel caso di specie, non ricorresse una mera violazione procedurale relativa all’incompleta comunicazione prescritta dalle norme di legge. A parere della Corte, nel caso di specie, vi è stata una violazione sostanziale, rappresentata dall’applicazione di criteri di scelta ad una platea di licenziabili illegittimamente delimitata rispetto all’intero complesso aziendale, con conseguente applicazione della tutela prevista dall’articolo 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori.

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