Gli ultimi dati Inps dicono che quest’anno il ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria ha già registrato un’impennata del + 45,65%. Il timore diffuso è che i dati siano destinati a peggiorare rapidamente, tanto da rendere auspicabile l’adozione di adeguate misure da parte del Governo
L’impennata dei costi dell’energia e la difficoltà di reperimento di materie prime preannunciano un autunno molto caldo per le imprese italiane, già alle prese con molteplici fattori critici come la coda della pandemia, l’inflazione record, la improvvisa (auspicabilmente temporanea) scomparsa di mercati rilevanti come quello della Russia e dell’Ucraina e una possibile incombente nuova recessione.
Il rischio è di assistere ad una generalizzata riduzione e sospensione delle attività produttive (che potrà interessare le aziende di tutti i settori e non solo quelle c.d. “energivore”) con una conseguente impennata di richieste di cassa integrazione da parte delle imprese.
Del resto, gli ultimi dati Inps (Report mensile agosto 2022 – INPS Coordinamento Generale Statistico Attuariale) sulla cassa integrazione non sono certo rassicuranti: tra gennaio e luglio di quest’anno il ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (che rappresenta l’ammortizzatore sociale utilizzato per le difficoltà più strutturali) ha registrato un’impennata del + 45,65% rispetto allo stesso periodo del 2021, interessando in particolare i settori dell’industria (+35,81%), edilizia (+34,88%) e commercio (+103,62%).
Il timore diffuso è che i dati riportati siano destinati a peggiorare rapidamente, tanto da rendere auspicabile l’adozione di adeguate misure da parte del Governo.
Già nei mesi scorsi, l’esecutivo era intervenuto in un’ottica di raccordo con la Riforma Orlando in vigore da gennaio introducendo:
Tuttavia, la CIG “in esenzione” è scaduta lo scorso 31 maggio, mentre le altre due misure sono destinate a venir meno con la fine del 2022.
L’arduo compito dell’esecutivo sarà dunque quello di trovare soluzioni in continuità con quelle adottate nei mesi scorsi, agendo negli spazi esigui del Bilancio che lasciano pochi spazi di manovra per sostenere imprese e lavoratori contro gli effetti dell’inflazione, della crisi energetica e del conflitto russo-ucraino.
Un segnale incoraggiante è quello secondo cui, nell’imminente decreto energia bis ora allo studio del Governo, vi sia proprio la reintroduzione della CIG senza contributo addizionale.
Ça va sans dire che, in mancanza di idonee misure, le imprese si troverebbero costrette a contenere i costi procedendo con i licenziamenti. Soluzione che, tuttavia, non risulterebbe affatto indolore per le casse dello Stato, in quanto comporterebbe un’impennata del costo della NASPI, oltre a ingenerare un costo sociale decisamente importante.
«Ci sarebbe da dire che si è scatenata una tempesta perfetta fra inflazione, guerra, rincari nei prezzi di energia e materie prime» spiega a Verita&Affari il giuslavorista Vittorio De Luca, Managing partner dello studio De Luca & Partners. Ma il peggio è che il governo ha scarsi margini di manovra per contenere l’ondata di richieste di cassa integrazione che rischia di arrivare in autunno.
«Al momento peraltro non c’è nulla di concreto» come evidenzia l’esperto che immagina possibili due interventi. «Il primo è l’esonero del pagamento delle addizionali sulla Cig (9%, 12%, 15% in funzione dell’utilizzo del sussidio, ndr)» chiarisce l’esperto. «Il secondo è consentire l’accesso alla cassa integrazione anche per periodi eccedenti i limiti di durata massima complessiva di 24 mesi nel cosiddetto quinquennio mobile».
Il tutto soprattutto per le aziende energivore come previsto dal decreto Energia per cinque settori più in difficoltà (siderurgia, legno, ceramica, automotive, agroindustria). E non solo per loro visto che i rincari dell’energia hanno creato difficoltà a tutti i settori dell’economia. Il problema è naturalmente come far quadrare i conti con le scarse risorse a disposizione. Ma l’alternativa alla nuova Cigs non è affatto facile né indolore. «Senza questo ammortizzatore, che per sua natura è temporaneo, le imprese si troverebbero costrette a contenere i costi procedendo con i licenziamenti – conclude – . tuttavia questa soluzione non è indolore perché comunque ha un costo per lo Stato che è quello della Naspi, oltre ad un costo sociale decisamente importante». Al prossimo governo toccherà scegliere la soluzione per sostenere le imprese e i lavoratori in uno scenario economico che si annuncia a tinte fosche. Non solo per l’Italia.
Fonte: Verità&Affari
Sebbene il trattamento di cassa integrazione disposto per tutta la forza aziendale (o un intero reparto) prevale sul trattamento di malattia, il periodo di comporto continua a decorrere. Ne consegue che è legittimo il licenziamento del dipendente che abbia superato il comporto in tali circostanze.
È questo quanto affermato dal Tribunale di Foggia con ordinanza del 17 luglio 2021, il quale, chiamato a pronunciarsi sulla validità di un licenziamento per superamento del periodo di comporto, ha dichiarato che anche se il trattamento di integrazione salariale sostituisce, in caso di malattia, la relativa indennità giornaliera, il datore di lavoro non può autonomamente modificare il titolo dell’assenza del dipendente, con la conseguenza che il periodo di comporto in caso di malattia certificata continua a decorrere sino a quando non sia il dipendente a richiedere il mutamento dell’imputazione della sua assenza dal lavoro.
In particolare, nel caso di specie, un dipendente veniva licenziato per aver fruito di un periodo di malattia di complessivi giorni 430 a fronte dei 420 giorni previsti dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro. Il dipendente, dunque, agiva in giudizio chiedendo l’accertamento della illegittimità del provvedimento espulsivo, deducendo di essere stato collocato, unitamente a tutti gli altri dipendenti della Società datrice di lavoro, in Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria con causale Covid-19, la quale aveva sostituito ad ogni effetto il periodo di malattia di cui stava fruendo. A sostegno della propria tesi, il dipendente richiama l’art. 3, comma 7, del D.lgs. 148/2015, nonché la Circolare INPS n. 197/2015, in base al quale “il trattamento di integrazione salariale sostituisce in caso di malattia l’indennità giornaliera di malattia, nonché l’eventuale integrazione contrattualmente prevista”. Il Tribunale nel respingere il ricorso promosso – richiamando le argomentazioni espresse dal Tribunale di Pesaro con sentenza n. 16/2021 – ha sottolineato che con il citato art. 3, comma 7, del D.lgs. 148/2015, il Legislatore ha inteso esclusivamente prevedere una diversa imputazione della prestazione economica ricevuta dal dipendente in caso di fruizione di un periodo di integrazione salariale, che resta, comunque, di competenza dell’INPS (come nel caso della malattia), non volendo intervenire sulla causale dell’assenza che attiene invece al rapporto privato tra lavoratore e datore di lavoro. Tale diversa imputazione, dunque, nulla ha a che vedere con il comporto e sul titolo della sospensione della prestazione lavorativa. È infatti da escludere, secondo il Tribunale, che il datore di lavoro possa arbitrariamente mutare il titolo dell’assenza del lavoratore quando lo stesso è in malattia, perché ciò significherebbe attribuire al datore di lavoro un potere extra ordinem, che si porrebbe addirittura in contrasto con un diritto di garanzia costituzionale, quale il diritto alla salute.
In quest’ottica, il Tribunale ricorda che il mutamento del titolo dell’assenza è consentito sole se sia il lavoratore a richiederlo, come ad esempio avviene quando il dipendente sostituisce alla malattia la fruizione delle ferie allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto. In questo caso, grava poi sul datore di lavoro, accettare o meno tale richiesta e, in caso di rifiuto, dedurre le ragioni organizzative (concrete ed effettive) che hanno portato alla negazione del periodo feriale.
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Norme & Tributi Plus Diritto de Il Sole 24 Ore.
Il vero problema del nostro sistema: l’assenza di un serio progetto di politiche attive del lavoro. L’avvocato Vittorio De Luca, managing partner dell’omonimo studio entra nel merito dell’intesa sulla fine del blocco
dei licenziamenti e sul decreto legge 99/2021, appena approvato dal governo Draghi. «Il rischio di una esplosione dei licenziamenti altro non è che la conseguenza di un divieto che si è protratto troppo a lungo. Ulteriori proroghe generalizzate non avrebbero fatto altro che peggiorare la situazione. Il blocco non ha permesso alle imprese di rinnovarsi per un arco temporale decisamente troppo ampio, paralizzando così i processi di riallocazione dei lavoratori. Finalmente ora potranno ripartire e movimentare nuovamente il mercato e l’occupazione».
Altro tema caldo sul tavolo è la riforma degli ammortizzatori sociali più volte annunciata e sempre più necessaria nel post pandemia. «Il sistema degli ammortizzatori, dopo la riforma del 2015, risulta frastagliato e non in grado di tutelare tutte le categorie colpite dalla recessione e di erogare prestazioni economiche tali da rappresentare un decisivo e duraturo sostegno. La pandemia ha dunque mostrato in modo evidente tutti i limiti del nostro sistema di ammortizzatori sociali. Risulta indispensabile,
quindi, procedere con una riforma organica quanto prima».
Il governo ha raggiunto una intesa con le parti sociali in merito al blocco dei licenziamenti. «L’intesa prevede un “impegno” a far ricorso a tutti gli ammortizzatori sociali esistenti prima di ricorrere ai licenziamenti; tuttavia
rappresenta una mera forma di moral suasion. Di tale impegno, inoltre, non viene fatto cenno nel testo del nuovo decreto. Certamente, si tratta di una magra consolazione per chi chiedeva a gran voce di prorogare ulteriormente il divieto di licenziamento».
Lunedì 8 marzo, a partire dalle 12.00 in diretta su Class CNBC (canale 507 Sky) e su www.milanofinanza.it appuntamento con #Ripartitalia, l’agenda per il futuro del lavoro. Vittorio De Luca sarà tra gli ospiti, moderati da Andrea Cabrini, per parlare delle nuove regole del lavoro.
La crisi pandemica ha radicalmente trasformato le dinamiche e i processi del mercato del lavoro imponendo l’adozione di nuovi modelli organizzativi.
Vittorio De Luca, traccia un quadro su carenze e necessità dell’attuale cornice normativa di fronte alle nuove forme di lavoro “liquido”.
Quali interventi normativi potrebbero assicurare la giusta flessibilità e produttività alle aziende per competere nel mercato post-pandemico? Quali tutele garantire ai lavoratori investiti dal processo di cambiamento? Quali le soluzioni adottate all’estero?
Clicca qui per seguire l’intervista.
La Legge n. 178 del 30 dicembre 2020 (c.d. “Legge di Bilancio”), ha previsto la concessione dei trattamenti di integrazione salariale con causale COVID per ulteriori 12 settimane. A differenza di quanto previsto nei precedenti provvedimenti, questa volta la cassa integrazione è gratuita. Ciò significa che i datori di lavoro non sono tenuti a versare un contributo addizionale in caso di riduzione del fatturato inferiore al 20% rispetto al 2019 o in assenza di contrazione. Le 12 settimane dovranno essere fruite nell’arco temporale tra (i) il 1° gennaio 2021 e il 31 marzo 2021 per i trattamenti di Cassa integrazione ordinaria e (ii) il 1° gennaio 2021 e il 30 giugno 2021 per i trattamenti di Assegno ordinario e di Cassa integrazione in deroga. Viene, invece, riconosciuto ai datori di lavoro che non richiedono i trattamenti di integrazione salariale in esame, l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali a loro carico (con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL) per un massimo di 8 settimane, fruibili entro il prossimo 31 marzo. L’esonero è riconosciuto nei limiti delle ore di integrazione salariale riconosciute nei mesi di maggio e giugno 2020 ed è riparametrato e applicato su base mensile.
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Qualora il datore di lavoro, alla data del 15 novembre 2020, stia ancora fruendo della seconda tranche di nove settimane in forza delle previsioni del “Decreto Agosto” si vedrà computare il rimanente periodo dalle sei settimane del “Decreto Ristori”
Il pacchetto di misure emergenziali sul lavoro inserito nel D.L. 137/2020 varato dal Consiglio dei Ministri il 28 ottobre 2020, prevede una ulteriore breve estensione della cassa integrazione d’emergenza (sia CIGO che CIGD) e dell’assegno ordinario (FIS) pari a sei settimane utilizzabili dal 16 novembre 2020 al 31 gennaio 2021. A tale ultima data, inoltre, viene ancorata anche la proroga del divieto dei licenziamenti per motivi economici che, dunque, viene ulteriormente differito in maniera generalizzata. Rimangono esclusi da tale preclusione: (i) i licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società che non preveda la continuazione dell’attività (anche solo parziale), salvo che si configuri la cessione di un complesso di beni/attività che costituisca un trasferimento d’azienda (o di un ramo) ai sensi dell’art. 2112 c.c.; (ii) le ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, che prevedano la risoluzione incentivata del rapporto di lavoro (limitatamente ai lavoratori che decidano di aderire al predetto accordo); (iii) i licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa. In tema di decontribuzione, invece, il decreto de quo ha previsto che per i datori di lavoro privati che non richiedono i trattamenti di integrazione salariale d’emergenza, viene riconosciuto l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali a loro carico, per un periodo massimo di 4 mesi, fruibili entro il 31 gennaio 2021, nei limiti delle ore di integrazione salariale già fruite nel mese di giugno 2020. Le ulteriori sei settimane di cassa integrazione (sia CIGO che CIGD) o di assegno ordinario (FIS), come detto, devono essere circoscritte nel periodo compreso tra il 16 novembre 2020 e il 31 gennaio 2021, mentre i periodi di integrazione precedentemente richiesti e autorizzati ai sensi del “Decreto Agosto” e collocati anche parzialmente, in periodi successivi al 15 novembre 2020, sono imputati alle sei settimane del “Decreto Ristori”. È altresì previsto che dette ulteriori sei settimane di trattamento vengano concesse a fronte del versamento di un contributo addizionale, calcolato in modo inversamente proporzionale al calo di fatturato subito dall’azienda nel corso del primo semestre del 2020 rispetto al medesimo periodo del 2019. Il pagamento del contributo addizionale non è invece richiesto ai datori di lavoro che abbiano subito nel primo semestre 2020 una riduzione del fatturato pari o superiore al 20%, nonché per coloro che abbiano avviato l’attività successivamente al 1° gennaio 2019, ovvero siano soggetti alle restrizioni introdotte dal DPCM del 28 ottobre scorso.
Negli altri casi è invece previsto il pagamento di un contributo addizionale pari:
Vale la pena evidenziare, a tal proposito, che il “Decreto Ristori” ha confermato così uno strano meccanismo di assorbimento già introdotto dal “Decreto Agosto” e ampiamente criticato da larga parte degli operatori. In particolare, qualora il datore di lavoro, alla data del 15 novembre 2020, stia ancora fruendo della seconda tranche di nove settimane in forza delle previsioni del “Decreto Agosto”, si vedrà computare il rimanente periodo – che dunque verrà assorbito – dalle sei settimane del “Decreto Ristori”. Questo meccanismo, chiaramente finalizzato ad economizzare le risorse pubbliche, di fatto penalizza paradossalmente quei datori di lavoro che hanno centellinato il ricorso alla cassa integrazione. Oltre a ciò, giova anche rilevare che il ricorso continuativo alla cassa integrazione non consente la integrale copertura del periodo intercorrente tra il 16 novembre 2020 e il 31 gennaio 2021. Infine, la sua onerosità rappresenta un ulteriore disincentivo al ricorso agli ammortizzatori sociali da parte delle imprese. Ciò, senza considerare che lo straordinariamente lungo divieto di licenziamento non consente alle aziende il ricorso ad altri strumenti per ridurre il costo del lavoro adeguando le organizzazioni al mutato contesto economico e di mercato.
Non da ultimo, osserviamo che, nel reiterare le norme, il governo avrebbe certamente dovuto aggiornare il riferimento temporale previsto per la determinazione dell’eventuale contributo addizionale.
E’ opinione dello scrivente non ritenere infatti corretto mantenere il riferimento all’andamento del fatturato registrato nel primo semestre 2020, rispetto al medesimo periodo dell’anno precedente.
Fonte: Norme & Tributi Plus Diritto
È stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 203del 14 agosto 2020 il Decreto-legge 14agosto 2020 n. 104 (cd. “Decreto Agosto”), rubricato ”Misure urgenti per il sostegno e il rilancio dell’economia”.
Di seguito vengono riassunte le principali novità connesse ai profili lavoristici introdotte dal Decreto Agosto.
– al 9% se hanno avuto una riduzione del fatturato inferiore al 20%;
– al 18% se non hanno avuto alcuna riduzione del fatturato.
Il contributo addizionale non è dovuto dai datori di lavoro che hanno subìto una riduzione del fatturato pari o superiore al 20% e per coloro che hanno avviato l’attività di imprese successivamente al primo gennaio 2019.
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I soci e collaboratori dello studio legale De Luca & Partners rimangono a disposizione per fornire ogni informazione necessaria a fronteggiare l’emergenza, nonché per elaborare le migliori strategie volte a minimizzare l’impatto della stessa sulla produttività aziendale.